Il “De Vulgari” non tratta la “questione della lingua”!

Chi mi conosce anche solo sommariamente, difficilmente può non aver notato una mia passione sfegatata e “quasi” inopportuna per la Divina Commedia del grandissimo Dante Alighieri.

Se amo scodellare in tutte le salse i canti che so a memoria, non è (solo) per vanità o ostentazione, come forse i più credono, ma principalmente perchè è bella -e la bellezza non è mai fuori luogo o inopportuna- e per il desiderio di “reclamizzarla”, fare la mia parte sdoganarla dalla coltre di repulsione a cui purtroppo associamo quasi tutte le “materie scolastiche” che ci sono state imposte durante l’adolescenza.

Non so bene per colpa di chi, ma ero convinto che la Commedia fosse intimamente legata a un fantomatico progetto di Dante, scritto nel De Vulgari Eloquentia, di proporre il volgare fiorentino a tutti i popoli della nostra penisola. Spesso mi son trovato a dire “è come se oggi uno scrittore contemporaneo si proponesse di scrivere un’opera letteraria con l’intento di proporre l’uso propria lingua a tutta l’Europa”. Col fatto che, però, Lui è riuscito nell’intento!

Credo che nessuno possa dimostrare che Dante non avesse questo recondito sogno o questo intendimento, ma egli non ne parla affatto, come ero convinto, nel trattato “De Vulgari Eloquentia”.

Me l’ha fatto notare la mia amica Beatrice (!) indicandomi una lettera scritta nel 1868 da Alessandro Manzoni, in cui egli confuta risolutamente che Dante nel De Vulgari affronti “la questione della lingua”. Scrive Manzoni: “Al libro De Vulgari Eloquio è toccata una sorte, non nova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d’esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno, quantunque libro di ben piccola mole (…) fu ed è citato come quello che sciolga un’imbarazzata e imbarazzante questione, stabilendo e dimostrando quale sia la lingua italiana. (…) Ora devo far di più e peggio, negare il fatto addirittura e dire che, riguardo alla questione della lingua italiana, quel libro è fuor de’ concerti, perchè in esso non si tratta di lingua italiana nè punto nè poco.

Inutile nasconderlo: in questo tranello ero caduto anche io. Mi consola di non esser stato l’unico, tanto a prender per buona la “leggenda metropolitana”, quanto a non aver mai terminato la lettura del De Vulgari, nonostante l’avessi iniziata un paio di volte.

Nella sua breve e divertente lettera, il Manzoni dimostra, con l’ironia che gli è tipica, che Dante intendeva “solo” cercare il Volgare Illustre (prendendo in esame e poi scartando tutti i 14 volgari presenti in penisola, per ultimi il siciliano, il bolognese e infine quello toscano, il “meno peggio”). Questo Volgare Illustre egli però specifica che andassee usato solo da poeti illustrissimi e solo per trattare i temi più alti e nobili; non già quindi per essere usato come lingua corrente per i popoli delle città d’Italia.

La “questione della lingua”, se non erro, la solleva il Manzoni, quasi 600 anni dopo.

Ma perchè, allora, questo “malinteso”? Secondo il parere della mitica Giovanna Bellini, autrice della ciclopica opera “Letteratura Italiana – Storia, Forme e Testi” (ed. Laterza 1990) (nonchè mia prof di Italiano e Storia nel lontano 1990): “Il De Vulgari è opera incompiuta: dei quattro libri preannunciati Dante scrisse il primo e la parte iniziale del secondo. Questo può essere spiegato col fatto che negli anni 1305-06 sopravvenne l’impegno più alto e gravoso, l’inizio della composizione della Commedia; la poesia dell’opera maggiore, oltre ad assorbire le energie dell’autore, lo spinse molto probabilmente ad un ripensamento delle teorie linguistiche che andava esponendo nel trattato, e addirittura si può affermare che, per certi aspetti, la Commedia le abbia smentite.”

Grazie Prof!

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